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San Gavino Monreale
venerdì, 19 Aprile 2024

Ospedale, una “lettera dal fronte” per raccontare la situazione al Pronto Soccorso

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L’ospedale di San Gavino Monreale è finito al centro della bufera dopo le recenti denunce dei sindacati, l’interrogazione in consiglio regionale da parte dei consiglieri di minoranza e con la controreplica diramata dalla ASL del Medio Campidano.

Dov’è la verità tra versioni dei fatti così differenti? Oggi un nostro lettore, dopo aver letto i nostri precedenti articoli, ha deciso di scriverci e raccontarci la sua esperienza al Pronto Soccorso di San Gavino Monreale. Lo pubblichiamo, cercando di far luce, insieme ai pazienti del territorio, sull’effettiva situazione della sanità locale e regionale.

Ecco la lettera firmata, che pubblichiamo integralmente.


Qualche giorno fa ho preso una brutta botta a un piede. Un forte dolore, il piede comincia a gonfiarsi e a diventare scuro: è successo qualcosa. Dopo qualche tempo, il dolore si fa decisamente forte e non posso più alzarmi dal letto, non posso poggiarlo, ma decido di resistere: non posso andare al pronto soccorso e rischiare di stare lì, la notte, per “qualche oretta”. Di solito sono molto restia a rinunciare alle mie ore di sonno. Decido di far passare la notte, e poi un’altra notte ancora prima di recarmi al Pronto Soccorso. Sono sola e una madre non si può permettere di stare troppe ore via. Ma siccome il mio piede non si sgonfia e continua a fare male, decido di andare a farlo controllare al pronto soccorso, lasciando i miei figli nelle mani del nonno e sperando di “far presto”.

Arrivo alle nove e un quarto del mattino. Nella sala d’attesa, insieme a me, ci sono due persone, ma nessuno dal Pronto Soccorso arriva per registrarmi. Mi dicono di non suonare: l’infermiera arriverà, non appena avrà un attimo, per registrare me e la paziente prima di me. Intanto, percepiamo da fuori il movimento delle ambulanze: vanno e vengono, nuovi pazienti con codice giallo entrano. Nel frattempo, altri pazienti a piedi arrivano dopo di me: ancora nessuno per la registrazione. Qualcuno si indispettisce, suona comunque il campanello nonostante passiamo parola: pazientare, l’infermiera arriverà. Ecco che l’infermiera arriva, mi registra un’ora dopo il mio arrivo. Mi chiede se ho un’impegnativa con il codice d’urgenza per andare direttamente a fare la radiografia: non ce l’ho, devo aspettare. Alle dieci e trenta, dopo la registrazione e l’assegnazione del codice (codice verde per i traumi come il mio) mi dice: le consiglio di farsi portare il pranzo.

Torno nella sala d’attesa, che continuava a riempirsi di “codici verdi”, persone con braccia o dita rotte, con un forte malessere, ginocchia doloranti o traumi da incidente stradale, persone anziane e non, sprovviste di acqua e di cibo, senza nemmeno un accompagnatore (possono stare solo gli accompagnatori delle persone non autosufficienti). C’è una signora che chiede di entrare presto: è una paziente oncologica con una lezione a un arto, ma deve attendere come gli altri. Ha il viso sconvolto, gli occhi gonfi di lacrime, è esausta. Le dico quello che era stato detto a me: prima di entrare per la registrazione, si faccia fare dal medico di base un’impegnativa per la lastra d’urgenza. Aiutata dal marito, ci prova.

La sala d’attesa si riempie, ma non accade nulla: nessuna delle persone arrivate prima di me viene chiamata per la visita e il tempo passa, mentre le ambulanze continuano ad arrivare. Seguiamo l’andamento dal sito della regione (Monitor) che diceva: 7 pazienti in codice giallo, 2 pazienti in codice verde sono dentro. Tempo di attesa minimo per i nuovi arrivati: maggiore di 6 ore. Chiamo mio padre per il pranzo, arriva con i miei figli, contenti di vedermi e con in mano un panino: “Ne avrò per molto”, gli dico, salutandoli, “fate da bravi”. Altri, che sono con me da tempo, non hanno nessuno che possa portare loro qualcosa. “Non c’è una macchinetta per una bottiglietta d’acqua?”, mi chiede una signora anziana, col viso e il collo chiazzate di rosso. “Non qui, signora. Deve fare il giro, arrivare sino alla portineria, sperando che nel frattempo non la chiamino…”. La signora, che stava malissimo, va da sola a procurarsi l’acqua. Io, con le stampelle, non potevo aiutarla e nessun altro si è offerto. Quando ritorna, comunque, non era cambiato nulla: tutto ancora fermo.

Intanto, chiudono la piccola sala d’attesa, ormai piena di gente e senza la possibilità di rispettare il distanziamento indicato, tramite un paravento, perché anche la parte antistante il pronto soccorso serve per allestire letti e barelle o, a seconda, per fare le registrazioni. Infermieri di corsa, ambulanze sotto il sole, un continuo via vai di gente mentre per i pazienti “verdi” ancora tutto fermo. Ci iniziano a chiamare dopo le 15 (quindi davvero, dopo un’attesa di almeno 6 ore) ma sempre con lunghi intervalli dovuti alla precedenza data alle urgenze. Monitor dice ora: 2 codici rossi, 6 gialli, 2 verdi. Tra le 9 e le 13 persone alla volta dentro per la visita.

Entro: il pronto soccorso è un accampamento, ci sono barelle ovunque, tutte le possibili postazioni sono occupate. Anziani che gemono, che si lamentano per i dolori o il malessere, sono disposti nell’andito o nelle sale d’attesa del pronto soccorso, adibite a stanze. L’attesa non finisce ancora; trovo davanti a me la paziente ontologica che sì, era riuscita a farsi fare la lastra prima di me, ma purtroppo per lei a un certo punto doveva ancora attendere. Chiude gli occhi, cerca di non pensare, attende il suo turno in mezzo al delirio totale. Intanto mi chiamano per la consulenza col medico: niente di rotto, posso andare. “Prima però le mettiamo una fascia con ossido di zinco”, dice il dottore. “No, grazie, preferisco andare”, faccio io, con fretta, “mi arrangio io”. Interviene l’infermiera “non abbiamo comunque ossido di zinco”. Ridiamo in tre amaramente, la situazione al Pronto Soccorso è indicibile. I bambini col nonno vengono a prendermi: sono le 18.

Lettera firmata

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