Site icon San Gavino Monreale . Net

San Gavino Monreale – dal Dizionario Angius-Casalis

Sul finire degli anni 20 di due secoli fa l’abate torinese Goffredo Casalis decise di pubblicare il Dizionario geografico storico statistico commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna. E nel quadro dell’importante e complessa iniziativa fece una scelta certamente indovinata: dare l’incarico di raccogliere tutte le informazioni sulla Sardegna a padre Vittorio Angius, cagliaritano, scolopio, insegnante, uomo politico, scrittore, giornalista, studioso infaticabile e ricercatore scrupoloso.

Vittorio Angius, per assolvere al meglio il qualificato e qualificante incarico, iniziò un viaggio che doveva durare oltre nove anni e durante il quale visitò la Sardegna paese per paese studiando con rigore e pazienza gli usi, i costumi e la lingua parlata in ciascun centro, facendo incetta di informazioni e dati sulla popolazione, sulle attività economiche e prendendo appunti precisi, infine, sulle caratteristiche delle abitazioni private e dei pubblici edifici.

SAN GAVINO di Monreale [San Gavino Monreale], grosso comune della Sardegna, capoluogo di mand. della Pref. di Cagliari, già compreso nell’antico dipartimento di Colostrai del regno di Arborea, quindi, dopo l’abolizione di quel famoso Giudicato (quando il Governo d’Aragona ne distribuì per vendite o donazioni le terre a’ suoi baroni), nella Baronìa di Monreale, nome sostituito all’antica appellazione di Colostrai, e che erasi appropriato al castello (su Castellu), dopo che nel 1324, l’Infante don Alfonso, temendo per la sposa nei pericoli della guerra, che combatteva contro i Pisani d’Iglesias e di Cagliari, la mandò in quella fortezza del Giudice di Arborea per esservi sicura da’ nemici e da’ loro partigiani, e per non patire della malaria (l’intemperie).

La popolazione, che appellasi da s. Gavino, e siede nel sito ove ora si trova, non ebbe in principio questo nome, ma quello di Nurazzeddu, o Nuragellu.

Nurazzeddu essendo rimasto deserto o rovinato, più probabilmente in alcuna delle molte guerre, combattute tra i Giudici di Cagliari o Plumino ed i re d’Arborea, o tra questi ed i re d’Aragona, che in tempo di pestilenza; ed essendosi poscia ristaurate le abitazioni, non più nell’antico sito, ma intorno alla chiesa di s. Gavino, però fu il novello popolo denominato da quel santo martire.

Se si può proporre come probabilissimo questo avvenimento, non se ne potrà mai indicare l’epoca precisa, se pure non venga alla luce qualche documento.
Sono tre vie principali (rugas) e la prima divide il popolato quasi in due parti eguali, denominata una parte dalla parrocchia, l’altra detta cammino di Cagliari, perchè si esce da quella per andare alla capitale.

Anche le case più notevoli sono d’un solo piano, fabbricate tutte di mattoni crudi con solai per mettere i grani ed i legumi.
La posizione geografica di s. Gavino resta determinata nella latitudine 39°, 32′ 50″, e nella longitudine occidentale del meridiano di Cagliari 0°, 19′ 30″.
La sua situazione è nella parte superiore del piano, che dal bacino di Sabàzu, che dicevasi stagno di Sellòri, discende alle maremme Nabolitane, o di Terralba.
Coperto quest’abitato almeno in parte agli aquiloni per la notevole mole di Monreale, resta esposto agli altri venti, principalmente al maestrale, che vi soffia senza alcuna opposizione dal golfo di Oristano.

Le montagne di Guspini distanti miglia 8, e le colline di Sardara e Sellori distanti miglia 5, tolgono alquanto di forza al ponente ed al levante; ma alla parte di mezzodì, perchè l’elevazione del suolo è pochissima, perciò nell’abitato si deve patire anche dell’influenza degli australi.
Se tacciono gli aquilonari e maestrali, il caldo è molestissimo nell’estate, il freddo mitissimo nell’inverno.
Per questa temperatura invernale, la neve, che pure non cadevi tutti gli anni, si scioglie prestamente, in meno di 24 ore.

È di rado che la elettricità produca la meteora della grandine, ed è più raro che le vigne e le frutta patiscano dalla medesima.
È questo uno de’ paesi dove più sentasi l’umidità, la quale è insoffribile ne’ tempi piovosi.
Il suolo del paese, mancando di declività, anzi essendo alquanto concavo, ritiene, come in un bacino, le alluvioni che si versano in esso dalla parte di mezzodì e da quella di levante; le vie restano inondate, e vedesi un immenso pantano, tra il quale sorgono le case.

Questo pantano non può in certi punti guazzarsi a cavallo senza pericolo di sprofondare e perire, come miseramente accade ad alcuni incauti. Un viaggiatore che vi passi la prima volta, rischia, se non sia guidato da una persona pratica, ed il rischio è maggiore nell’entrata e nell’uscita dal paese, sulla via da Cagliari ad Oristano, ed in quella a Sellori.
Nell’anno 1846, per un copioso acquazzone, che ruppe dalle nubi del libeccio, il paese restò inondato, ed il lago levossi in certi punti a due metri: onde avvenne ne’ vicinati (rioni) di s. Croce e di Nurazzeddu, che le case fabbricate di làderi (mattoni crudi), nello scioglimento di questi rovinassero, e si patisse un danno considerevolissimo (relativamente al paese) perchè fu stimato non minore di lire nuove 50 mila. Fortunatamente non perivano che due sole persone.

L’acqua, che impaluda in questo luogo, non è solamente quella che scorre in alluvione dalle terre superiori, ma quella pure che filtra dalle medesime, e sorge in fonte in diversi luoghi, e precisamente in quelli dove il suolo perde la sua solidità, e cede sotto i piedi con pericolo delle persone e degli animali che incautamente vi passano.
A questo pericolo hanno i Sangavinesi pensato più volte di provvedere sternendo delle pietre sopra quei tratti pericolosi, ma senza buon effetto, perchè quando le acque filtrate tornarono a sorgere con impeto, trassero seco la terra, e le pietre si affondarono dove più, dove meno.

Essendosi veduta la inutilità del selciamento si formarono ponti sopra quegli acquitrini, due dentro il paese, ne’ luoghi di più frequente passaggio, ed uno fuori presso al convento, che da questa circostanza fu denominato su ponti de conventu.

Non par credibile che ne’ tempi scorsi nessuno in quel paese abbia potuto indovinare il modo vero di asciugare in parte quel suolo, aprendo con facilità degli scoli verso il fiume, e sfossando un canale profondo sufficientemente alla estremità del paese dalla parte di levante e di mezzodì, con pendenza dove è più facile darla, per condurre l’umore della filtrazione e le alluvioni all’alveo dell’indicato rivolo.

Farebbesi pure ottima cosa per la salubrità dell’aria se si togliesse il fango dall’alveo di questo.
In un sito cotanto acquitrinoso dentro il paese e fuori tutto all’intorno, dovea necessariamente essere frequentissima la nebbia. Come scende il sole dietro i monti del Colostrai, i vapori raffreddandosi cadono dall’alto e fattisi sensibili, ingombrano il paese, bianchi e cerulei, come il fumo che espira per mezzo di tevoli da’ focolari.
Lo stesso ingombramento vedesi nella mattina, ma più denso assai, nè si dirada prima che il sole abbia raddoppiato il suo calore.
Sono rare le mattine che l’aria abbia quella trasparenza, che ha in luoghi migliori, non è raro che il sole già ben alto sopra l’orizzonte resti nascoso come da nuvolo, o appena trasparisca fosco rossigno o sanguigno. Tanto è crasso il fluido, onde è saturo l’ambiente.

Essendo tanto umorosa la terra, frequenti le paludi e i pantani intorno al paese; però quando ne’ forti calori della estate si corrompono le sostanze organiche, vegetabili e animali, accade uno sviluppo di aliti venefici, che respirandosi disturba e guasta l’economia animale, e cagiona ad alcuni la morte. In paragone l’aria di Oristano è men morbosa, che sia questa di Sangavino; e questo luogo se meno fosse ventilato e purgato da’ miasmi sarebbe affatto inospitale, essendo un luogo de’ più insalubri, perchè mentre in altre terre di ciel malsano la malaria non nuoce, che nelle stagioni estiva ed autunnale, qui è perniciosa anche nell’inverno; e mentre in altre regioni maligne gli indigeni, attemperatisi a quelle pestifere esalazioni, non patiscono più dalla loro nociva efficacia, come accade in chi si assuefà a’ veleni, e vegetano prosperi con vigorosa sanità, anzi alcuni giungono con integrità di sensi e robustezza di fibre sino agli anni più tardi; in questa per lo contrario patiscono molto anche i nativi e vivono comunemente deboli e addolorati, come appare in molti dal tristo colore del volto e dalla ordinaria rilassatezza de’ nervi; pochissimi giungono all’anno ottantesimo e più pochi in quella grave età hanno della forza, languendo quasi in tutte le fibre, i sensi e gli spiriti, se l’agiatezza della vita non vieta quella deteriorazione.

Siffatti pessimi inconvenienti avrebbero dovuto persuadere gli abitatori di Sangavino a stabilirsi in qualche non lontano sito di condizioni migliori; perchè veramente, anche se si volesse fortemente, e si faticasse con molto studio, di poco si potrebbe migliorare la natura di questo luogo; ora essi non sanno provvedere a se stessi e sopportano con stupida rassegnazione tanti mali.

Territorio. L’agro de’ sangavinesi ha forse una superficie di 16 miglia quadrate, ed è disteso tutto in piano con rare e poco notevoli gibbosità, che non sono naturali.

Questi poggetti, detti Cucuru, pizzu gibba o gibisedda, sono Cucuru de Bia Umbo, Cucuru de Cracasa, su Cucuru de sa Gibba manna, su Cucuru dessa Gibisedda, su Cucuru de Gibba corroga, su Cucuru dessa Gibba Onidi, su Cucuru dessa Gibba deis Piras, su Cucuru dessu Planu, su Cucuru de Pizzu Loja, su Cucuru dessa bia, su Cucuru deis perdas longas, su Cucuru deis Masongius ecc.

Nella parte inculta (sa strovina) dell’agro di Sangavino sono molto sparsi i mirti, i corbezzoli, i lentischi, i cisti, tante altre specie di legni cedui, e non mancano gli olivastri.

Siccome in alcuni de’ paesi a levante e a scirocco, come Sardara, Sellori, Samassi, mancasi di combustibili per i forni e i focolari, molti sangavinesi quando non han che fare tagliano e vendon fascine e legna, e tolgon pur le radici (sa cozzina) con vero danno, perchè in questo modo diminuiscono la vegetazione e tolgono poi a se stessi e a’ loro successori di poter fare gli stessi lucri. Nasce da cotesto modo barbaro che il suolo in molti tratti sia affatto sgombro di vegetazione, mentre dove il suolo è stato chiuso da’ proprietari e non si può menar la scure le piante cedue crescono prospere.

Sono pochissime le fonti di acqua potabile, che si possano indicare entro i termini di questo territorio.

Noterò quelle dalle quali beve la popolazione, che si trovano, una nel luogo detto Sa Grui al mezzodì e ad un miglio scarso dal paese in territorio comunale, rifabbricata ed ingrandita a spese del cav. D. Antonio Diana; l’altra nel luogo detto Su Fraizzeddu, a distanza di dieci minuti e da ponente, dentro il possesso del sacerdote Raimondo Porru, a cui spese fu scavata e fabbricata; ed una terza che è nominata da s. Severa a poca distanza, ed a levante.

Quelli che vogliono acque migliori le trovano a maggior distanza, ed i benestanti vi mandano i loro servi con grossi fiaschi.

Le più notevoli sono tre:

La fonte di s. Maria, o Funtana Fenugu, nella via a Guspini alla distanza d’un’ora che dà un’acqua più fina e leggera. Quando non erano ancora aperte le due suindicate in tanta propinquità all’abitato i popolani beveano da questa e a spese del comune si fabbricava intorno per conservarla e tenerla pulita.

La fonte, detta Mitza de Figuniedda, tra’ limiti di Sangavino e Villacidro ad un’ora e più dal paese lodasi per maggior bontà e per la perennità.

La fonte, detta Mitza Traversa, a circa un’ora di distanza, è pregiata quanto le predette.

Altre fonti perenni sono sparse per il territorio e giovano a’ pastori per abbeverarvi il bestiame, e per dissetare i coloni.

Nel paese e circondario trovasi l’acqua con poca fatica, perchè basta scavare un pozzo di metri uno, o uno e mezzo, perchè incidasi una o più vene, che danno sì copia di acqua, ma non potabile, perchè salmastra, e pesante, che serve al bestiame e al bucato, e a taluni anche per la cucina.

Dentro i termini di Sangavino è un solo notevole rivolo che vi si forma, e cresce da vari rigagnoli.

La sua origine è al scirocco del paese della piscina, che dicono di Pascanàdi o Vasca-e-anadi(vasca di anitre). Ha un alveo tutto fangoso, dal quale si esala gran copia di miasmi, quando si prosciuga dal sole per siccità troppo prolungata.

I ruscelli suoi tributari sono quello di Onidi, che primo se gli unisce, quindi i nominati Sa Sarpa, Santa Maria, Pardu o Pradu e su Giuncu, per i quali cresce di molto nell’inverno.

Siccome i notati del suo alveo rendevano pericoloso il guado, così nel 1768 fu fatto a spese del comune un ponte a tre archi, sul quale transitano quelli che vanno o vengono da Villacidro.

Il rio di Pascanadi giugnendo al maestrale del paese, in distanza di mezzo miglio, si unisce a un rivo maggiore, formato dalla riunione del fiumicello proveniente da Forru, e scorrente alla base di australe dal colle del Castello, e dal fiumicello che viene dalle falde occidentali delle colline di Melas.

Sono nelle vicinanze dell’abitato, come già indicai, molti siti depressi, dove radunasi l’acqua e stagnando fa pantani, e piscine. Nominerò le più notevoli:

La piscina più propinqua è quella che dicesi di s. Gavino, perchè a soli 200 passi verso levante, la quale asciugandosi dal sole estivo manda nel paese una perniciosa infezione. Questo male si conosce da tutti, potrebbe togliersi col facile aprimento d’un emissario, o gora, e non pertanto lasciasi sempre esistere tanta corruzione. A tale giugne la stupidità di quelli che hanno autorità: la piscina già indicata di Pascanàdi, dal quale abbiamo indicata la provenienza del fiume dello stesso nome:

La piscina Moi, distante di mezz’ora verso mezzodì:
La piscina Grui, distante poco meno:
La piscina Porcella a ponente, quella di Terrabianca ecc.

I cacciatori non trovano nella Strovina di questo territorio e nelle chiusure altro che volpi, lepri, martore e conigli. Se accade di incontrare qualche cinghiale esso viene dai salti di Guspini.
Volano frequenti su questa regione avoltoi, astori e i nibbi, i quali piombano ne’ cortili per predare i polli.
Per prendere le pernici ne mettono una a zimbello, la quale cantando chiama le altre: queste, venute intorno alla gabbia, restano prese nelle reti.
Le lepri e i conigli si cacciano con lo schioppetto e col laccio.

Tra gli uccelli acquatici si possono nominare il monachetto, il mergo, il caponegro, il germano reale, la folaga, la gallinella d’acqua, la beccaccia, la quale, sebbene non viva nell’acqua, si riposa sempre in luoghi pantanosi.

Si fa talvolta caccia anche di tortorelle, d’oche selvatiche e di gru, nel tempo del loro passaggio.

Popolazione. Il numero degli abitatori di Sangavino oscilla frequentemente tra l’incremento e la diminuzione, come in questo, così in tempo antico.

Nel 1800 si numerarono anime 2171.

Negli anni

1824 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34

Si numeravano anime

2209 2229 2300 2287 2206 2067 1950 2010 2080 2515 2574

Nel 1837 erasi il numero accresciuto a 2672, nel 1839 trovossi a 2622, nel 1846 risaliva a 2674, e nel-l’anno scorso era di nuovo disceso a 2489.

A prova che anche in altri tempi fosse siffatta variabilità porrò sotto gli occhi del lettore i numeri che trovai notati negli atti parlamentari del regno; ed insieme presenterò quelli che riguardano gli altri comuni della contrada di Monreale e d’Uras, i quali erano nella giurisdizione dello stesso feudatario.

Nei censimenti fatti nelle corti presiedute, dal conte di Lemos nel 1653, mentre imperversava nell’isola la peste, dal duca di Monteleone nel 1688, e dal Montellano nel 1698, si notavano per i seguenti paesi i rispettivi numeri di fuochi

1653 (fuochi) 1668 (fuochi) 1698 (fuochi-maschi-femmine)

S. Gavino 212 404 391 876 835
Sardara 228 339 403 815 806
Guspini 188 431 413 1052 953
Gonnosfanadiga 121 205 250 630 617
Arbus 102 258 265 655 627
Pavigionis 110 152 105 264 238
Uras 78 158 186 402 378
Terralba 56 211 217 453 446
Arcidano 0 56 82 157 137

I pericoli, le angarie e tutti i generi di vessazioni feudali, la difficoltà di vivere, la speranza di far fortuna in altro luogo, lo stabilimento di famiglie estere, il ritorno degli emigrati, le epidemie ec., sono state alternatamente le cause del movimento irregolare, ora in progresso, ora in regresso, che osservasi nella popolazione, sì nel secolo XVII, come in questo secolo XIX.
Nell’anno 1846, quando la popolazione era di anime 2646, queste erano distinte, in maggiori d’anni 20, maschi 832, femmine 854, in minori, maschi 471, femmine 489, e distribuite in famiglie 635.
Per il movimento della medesima si possono tener come quantità medie annuali, nascite 95, morti 70, matrimonii 25.

L’ordinario corso della vita è alli 60 anni: molti arrivano agli 80, ed alcuni di forte temperamento e che si abbiano cura, si approssimano al secolo. Le malattie comuni sono: nell’inverno, infiammazioni di petto per brusco cangiamento di temperatura; nell’estate, febbri gastriche per abuso di frutte immature; nell’autunno, febbri intermittenti e perniciose.
Devesi poi notare, che oltre ai detti malori, che sono generali nell’Isola, i Sangavinesi sono soggetti alle ernie ed alle ostruzioni.

Le epidemie del 1812-16-18, che peggio che in altre parti furono mortifere in Sangavino, tolsero alla popolazione più di 300 anime sopra l’ordinario numero della mortalità.
Dal notato infelice temperamento comune nasce quella certa indolenza, che è nel carattere generale, la tardità nell’agire, e la pochissima vivacità.
Migliori mangiatori che bevitori, sono assidui ne’ loro lavori soliti, ma poco industriosi e solleciti d’avvantaggiarsi.

Si potrebbero lodare religiosi, se fossero illuminati per la istruzione; ma la istruzione essendo troppo scarsa, nè accomodata a scuotere dalle menti certi antichi errori, certi pregiudizi, anzi sostenendosi questi da certuni che hanno interesse nella esistenza dei medesimi, si deve riconoscere la superstizione in vece della religione.
Molti di questi paesani credono ancora nella magia, e credettero facilmente ad un impostore, il quale avea imparato da una donnaccia, che fingevasi ossessa, a rappresentare l’energumeno; e quello che era peggio, e pare incredibile, dicevasi diretto da un prete d’una vicina parrocchia (Sellori??), anzi operante d’accordo con lui, col quale dividea le offerte che gli erano presentate dai gonzi che andavano a consultare il suo oracolo diabolico.

Qui non disgradirà il lettore che dica alcune parole su la donna, dalla quale costui era stato ammaestrato a fare l’indemoniato.
Costei, che abitava in un paese dello stesso dipartimento (Gonnosfanadiga??), sapendo alterarsi in modo strano, perchè potea gonfiare oltremodo il collo e il petto, prendendo un aspetto di invasata, e sapendo variar la voce in molte maniere, perchè imitava gli accenti di persone diverse, si confessò soggetta agli spiriti infernali, e fece per molto tempo la pitonessa, ingannando le persone semplici e vendendo le risposte. I preti più savi e pii gridarono contro l’impostura, ma alcuni sciocchi ed empii si mostravano creduli, faceano esorcismi, magnificavano le loro lotte co’ diavoli, il coraggio di se soli contro legioni, e raffermavano negli animi l’errore. Il vescovo Vargiu non volle soffrire questo scandalo e frode, obbligò la menzognera a confessare in pubblico le sue male arti per ingannare e per arricchirsi delle offerte; ma non andò gran tempo, che, stimolata dalla cupidigia de’ suoi lucri turpissimi, tornò all’antica consuetudine, a rappresentar la sibilla, ed a rispondere con frasi ambigue agli stupidi interroganti, ora nella voce d’una persona, ora in quella d’un’altra, come se diversi spiriti parlassero col suo organo, attemperandolo ciascuno a sè.

Date le risposte la furba si calma, e ritornata a se stessa fa come quelli, che, destandosi dal sonnambulismo magnetico, si mostrano ignari di ciò che han detto, interroga su le risposte degli spiriti, ed avverte quei semplici a non dar intera fede al diavolo, perchè il diavolo si piace talvolta a mentire, ed ingannare gli uomini, essendo padre della menzogna.
Per la notata ignoranza delle dottrine della chiesa, per semplicità o connivenza di alcuni sacerdoti, e per frode di altri, non pochi di questi popolani, come deve pur dirsi di altri d’altre parrocchie, hanno una gran fede in certi brevi (scrittus), che si scrivono da certi preti e frati, lodati di sapere cose arcane, e si portano addosso, o si collocano in qualche parte del predio o della casa, per scongiurare malattie, offese di nemici, mali accidenti fortuiti, e sviare ladri. Ho parlato di frode, ed è vero che certuni, che si fan beffe tra gli amici della credulità de’ semplici, mantengono queste superstiziose credenze per satisfare alla loro avarizia.

Professioni. Queste sono l’agricoltura, nella quale si esercitano, tra grandi e piccoli, non meno di 750 popolani, la pastorizia, alla quale sono dedicati forse 60, i mestieri che si praticano da circa 70 persone.

Questi mestieranti sono, sarti 10, bottai 12, falegnami 9, scarpai 10, ebanisti 6, fabbri ferrai 7, muratori 12, vasai e fabbricatori di mattoni 15.
Sono quindi a notare, preti da 10 a 12, frati da 15 a 20, persone di tribunale 4, avvocati 4, notai 4, pro-curatori 8, infine medici 2, chirurghi 3, flebotomi 4, farmacisti 1, un medico e chirurgo distrettuali.

Proprietarii. Sono rarissimi che non possedano almeno la casa che abitano; ma non si dicono possidenti se non quelli i quali possedono qualche porzione di territorio, o del bestiame, ovvero abbiano proprio un carro co’ buoi.

La proprietà territoriale, come accade in tutti i paesi di pianura, è troppo disugualmente distribuita, perchè alcuni pochissimi possedono estesissimi fondi con molto bestiame, un quarto delle famiglie non ha alcuna parte nè di terre, nè di bestiame, gli altri godono d’una fortuna diversa: ma in generale si può dire che i benestanti, cioè quelli che vivono in agiatezza, e poco patiscono negli anni di disdetta, non sono più che un decimo delle famiglie.

Distintamente i proprietarii sono tra i 450 ed i 500, le famiglie povere da 70 ad 80, le indigenti da 40 a 50.
I non possidenti fanno sevizio ai proprietarii nel-l’agricoltura e nella pastorizia.
Tra’ maggiori proprietarii sono a notarsi due famiglie nobili, gli Orrù e i Diana.

Essendo così notevole il numero dei nullatenenti, dovea per conseguenza trovarsi in s. Gavino un numero considerevole di poveri, i quali in certe sinistre circostanze, quando la mercede che si può avere per i lavori è minore del bisogno, o quando manca il lavoro, perchè non sanno ingegnarsi, o non vogliono, diventano per necessità accattoni; ed infatti in nessun altro paese, dove sieno in gran numero i non possidenti, vedonsi tanti mendicanti, quanti in Sangavino. Cotesta spensieratezza a ricercare i mezzi di sussistenza si fomenta dalla fiducia che i miserabili hanno sempre avuto nella carità dei parrochi, i quali essendo ricchi per la pingue prebenda, hanno sempre dato con liberalità, e siccome non hanno saputo scuoterli dall’indolenza, animarli al lavoro ed indirizzarli in qualche industria, però se debbono essere lodati dello spirito di carità che han dimostrato nelle largizioni, nol meritano per altro rispetto, perchè non han fatto in modo che i poveri si mettessero in grado di procacciarsi con la propria industria i mezzi di sussistenza. In altre parti, quando nel paese non si vede modo di guadagnare il necessario, si va dove si possa trovar lavoro; i Sangavinesi non si vogliono discostare dalle loro case, e sono alcuni che ricusano di andare al prossimo stabilimento di Sabazu (detto di Vittorio Emmanuele) con una buona mercede.

Istruzione primaria. La scuola primaria suol essere frequentata da circa 46 fanciulli, ma il profitto che si fa è nullo, perchè i regolamenti non sono osservati. Si sperava che dopo l’istituzione della metodica, e per la vigilanza dell’ispettore stabilito dal governo, l’istruzione sarebbe più proficua, che era stata negli anni addietro; ma a nulla giovò il nuovo ordinamento, la sorveglianza e le visite dell’ispettore, e se questi per troppa benignità si mostra satisfatto, e per lodare le proprie sollecitudini loda la diligenza de’ maestri, il notorio nessun profitto de’ giovanetti protesta contro i maestri della primaria, contro i professori di metodica, e contro l’ispettore, ed hanno ragione i popolani che sono quotizzati per il salario de’ maestri, di pretendere che, se non si costringano i preposti alla primaria istruzione a fare il loro dovere, si tolga l’impostura di queste scuole, e si lasci loro il danaro che sono obbligati a dare a chi nol guadagna con la fatica. Questo nessun profitto fatto nella scuola primaria è provato evidentemente dal numero di coloro che in tutto il paese, eccettuati, come è ragione, quelli che han fatto gli studi nei ginnasii, preti, notai, chirurghi, ecc., sappiano leggere e scrivere, non essendo più che sei!!!, e forse nè pur di questi pochi si può far onore alla scuola perchè forse è vero che abbian imparato nelle scuole d’Ales. Ecco quanto si è profittato ne’ 28 anni da che questa scuola è stabilita.

Istituzioni di beneficenza. Ho scritto altrove che per consigli interessati di certuni, quasi tutte le lascite fossero fatte per messe, feste, novene, panegirici, processioni ed altre simili cose; pochissime per beneficare a’ miseri e per contribuire al bene della società: e tra queste pochissime posso ora notare due istituzioni, una per somministrare agli ammalati medicina e cibo, l’altra per certo numero di doti a zitelle che prendessero marito.

La prima di esse devesi a Catterina Perria, che in uno degli ultimi anni dello scorso secolo legò un’annua somma, ed a Raimondo Pani, che nel 1820 lo accrebbe; la seconda ad Isabella Ledda. Sono piccole le due somme, perchè quella destinata per gli ammalati poveri può ascendere a ll. n. 150, l’altra destinata per le doti a ll. 400 incirca; non pertanto scrivo il nome di questi benefattori per render onore alla loro memoria.

Nelle disposizioni della Ledda sono questi articoli, che del detto reddito annuo se ne facciano quattro parti, e queste sieno date a quattro zitelle della sua parentela, che siano già fidanzate, ed in mancanza di sue consanguinee od affini a quattro altre fanciulle.

Qui non lascerò di notare che tante volte la volontà della testatrice Isabella Ledda manca di effetto per l’infedeltà scandalosa degli amministratori, i quali come da taluni è stato detto, rivolgono in proprio profitto tutte od alcune parti di quel reddito, sì che le povere fanciulle restano prive di quel soccorso. Si leva l’amministrazione ad un prete per raccomandarla ad un altro prete; si toglie a quest’altro per la stessa ragione, e continua sempre la frode. Se i superiori ecclesiastici non possono fare che cessi questa iniquità, egli è ragionevole che l’amministrazione sia affidata a persone che possano rendere conti migliori.

Lavori femminili. Non si marita alcuna donna che non abbia fra le altre masserizie, che deve portare in casa dello sposo, anche il telajo: e siccome in alcune case ve n’ha più d’uno, però il numero dei medesimi è per lo meno di 700, tra i quali un solo formato nel modo de’ telai del continente.

Si lavora in lana per il panno forese, in lino per le tele grosse e fine, che sono veramente di maggiore durata di quelle che vengono d’oltremare.
Si tessono pure di lino e cotone coperte da letto (fanigas) ordinarie per la povera gente, e fine per le case agiate, broccate di fiorami a vario disegno, e se ne lavorano pure di lana sarda ed estera di diversi colori (cillonis o burras).

Particolarità. Non si può notarne alcuna, per cui si distinguano dagli altri nelle costumanze. Nel vestiario l’unica cosa per cui si discernano, è il color nero del giubbone, il quale è rosso ne’ Villacidresi, bianco di fustagno ne’ Guspinesi.

La ricreazione comune è, ne’ giorni festivi e nelle notti di certe feste popolari, la danza al suono delle zampogne; il canto all’armonia dello stesso rustico istrumento continua ad usarsi nella estate per le vie del paese, e si modula in rione una o due ottave di versi bissenari, ec. ec.
Amministrazioni. Il consiglio comunale componesi di otto persone, compreso il sindaco ed il segretario.
Il barracellato ha 20 persone, 4 capi barracelli, un capitano ed un segretario detto attuaro.
Nel tribunale di mandamento sono, un giudice, un viceprocuratore fiscale e due segretarii.
La giurisdizione di questo tribunale estendesi sopra Pabillonis, o Pavigionis, e Sardara.

I popoli continuano ad invocare la giustizia, e se è vero quel che dicono, essa non risponde a’ loro voti, negando, differendo o violandosi la ragione; se fossero vere le querele, si vedrebbero nei tribunali scandalose iniquità, turpissime corruttele, detestabili simonie, o per lo meno i ministri della giustizia sarebbero colpevoli di negligenza e indolenza, e sarebbero da condannare gli agenti superiori di poca sorveglianza sulla condotta degli inferiori.

I delitti sono rari, e se nel territorio si commettono grassazioni ed abigeati, sono questi da attribuirsi a venturieri orgolesi, tonaresi ed anche villacidresi. A questi stessi dovrebbe forse imputarsi qualche omicidio, che fu scoperto entro i termini della notata giurisdizione.

La nessuna vigilanza della polizia, e la poca forza del governo, assicura l’impunità a’ malfattori, e fa soffrire gravi danni ai cittadini nelle persone, e più nelle proprietà.
In Sangavino è la residenza del comandante del battaglione miliziano del dipartimento di Monreale.

V’è pure un Regio ufficio di posta, dove il corriere venendo da Cagliari fa la prima diramazione per Villacidro, Iglesias e le isole sulcitane.

Agricoltura. Sono più di duecento persone che possedendo terreni esercitano l’agricoltura sopra i medesimi; degli altri che ho già compresi nel totale de’ coloni, alcuni fanno società con proprietarii di terre, o con altra persona che metta le spese del fitto del terreno, il rimanente de’ coloni lavora per mercede nei campi altrui.

Il territorio di s. Gavino è coltivato in circa tre quinti della sua superficie. In questa parte si comprendono ambe le vidazzoni in cui si alterna la seminagione, i chiusi (cungiaus), le vigne ed i terreni de’ novali (narboni) che nel 1845 furono divisi dalla strovina.
Le vigne comprendono un’area, che può computarsi di circa un miglio quadrato, cioè più di starelli 800.
I chiusi sono forse contenuti in una superficie maggiore. In essi si semina, e si introduce a pastura il bestiame di servigio, o manso.

I terreni, dove più, dove meno, sono atti ad ogni sorta di biade, e per produrre abbondantemente, basta che le pioggie vengano opportune, e che nel tempo della fioritura e maturazione de’ frutti, i seminati non patiscano la nebbia, principalmente quella così malefica che annulla le speranze de’ coloni in poche ore.

L’arte è poco illuminata, al che si aggiunge il difetto di volontà per fare ciò che potrebbe essere utile, e giovare agli interessi particolari. Si fa sempre quello che si è fatto dagli antichi, e nel modo stesso. Forse, se alcuno tra essi mostrasse nuove pratiche, e ne fosse evidente il successo e il vantaggio, cederebbe cotesta ostinazione. A questa però sarebbe necessario che il novatore fosse istruito nelle vere dottrine agrarie e nei metodi più proficui, il che si potrebbe ottenere facilmente mandando uno o più giovani in scuole pratiche di agricoltura a spese del prebendato o de’ principali, massime che la spesa sarebbe niente gravosa.

Il monte di soccorso, amministrato dal parroco, da un censore e da un depositario, ha un granajo di starelli 4800. Il monte nummario non è in stato egualmente buono con grave danno de’ coloni poveri, i quali devono farsi imprestare da usurai. Sarebbe certamente ben fatto se una parte di quella quantità di grano si vendesse, per aver a sufficienza per imprestare ai più bisognosi per le spese della messe.

Le terre delle due vidazzoni sono circa starelli 8 mila.

La seminagione ordinaria si computa di starelli 3,500 di grano, 500 d’orzo, 800 di fave, 200 di legumi, tra piselli, lenticchie, ec., di lino … in totale 5/m.
La comune fruttificazione del grano nelle annate scarse è al 7.plo, nelle annate mediocri al 10, nelle buone dal 12 al 15, nelle ottime al 20 e più. Il grano di Sangavino è molto stimato per il panificio.

L’orzo, le fave ed i legumi sogliono produrre di più. Il lino non prospera perchè il terreno non gli è propizio. Appena si possono avere 25/m. manipoli.
L’orticoltura si fa in pochi luoghi, la cui area può computarsi di starelli 15. Vi si coltivano molte specie insieme con le ficaje ed i meligranati. I melloni, sebbene non così voluminosi come altrove, sono di gusto delizioso.

La vigna produce mediocremente, ed ha dalle 25 alle 30 varietà d’uve.
Si fa molto vino comune dalle uve nere. Ne’ vini gentili, che per lo più si traggono dalle uve bianche, sono molto stimati la malvasìa, la vernaccia ed il moscato, perchè di soave gusto e di durata.

La quantità di vino comune e fino che distillasi per acquavite, non è maggiore del ventesimo del mosto, e più spesso minore. I Sangavinesi non pare che amino molto questo liquore, come potrebbe presumersi dall’umidità del clima.

I fruttiferi di quasi tutte le specie che si coltivano in Sardegna, vi allignano e producono buoni frutti, se non sieno guasti dalla nebbia. Ma perchè questo caso è frequente, o perchè i venti scuotendone ogni giorno una parte, ne lascia maturar pochi; però quei coloni si mostrano poco studiosi di accrescerne la coltura, la quale per tal causa è più ristretta, che ne’ paesi della montagna, cioè in Guspini, Arbus e Gonnosfanadiga.

Si hanno degli agrumi, ma producono poco per causa delle nebbie, e molto per la salsedine delle acque.

Sono coltivati circa 5,000 olivi dentro e fuori del-l’abitato, e si ha un prodotto considerevole; ma meglio assai di questa specie prosperano le ficaje, i peri di molte varietà, i meligrani e gli albicocchi.

Uno dei prodotti particolari di Sangavino è lo zafferano, che vi si coltivò in maggior quantità che in altre parti del regno, ed è molto stimato nel commercio. Dispiace però il notare che alcuni ne vanno smettendo la coltivazione. Se questa coltura sterilizza il terreno, si sa bene come fare per ingrassarlo. Il Fara nella sua corografia, dando un cenno del Giudicato (come erano appellati i grandi dipartimenti) del Colostrai, nota sopra Sangavino l’unico particolare dell’ottimo zafferano, che produceva questo territorio.

Trovasi ne’ tempi posteriori qualche documento di quanto fosse ampiamente distesa questa coltura.

I letamai che si formano ne’ cortili in tutto il corso dell’anno, si tolgono nel settembre per concimare le terre.

Si è detto che nei chiusi si soleva seminare e introdurre il bestiame a pastura; ora aggiungerò che i medesimi, come le vigne, sono cinti a siepe viva di fichi d’India, e che in molti di essi si lascia crescere il bosco.

Pastorizia. I pascoli delle terre incolte (su Strovina) sono sostanziosi, ma non molto abbondanti, massime se le pioggie si facciano desiderare. Se fossero chiusi il prodotto sarebbe certamente molto maggiore. In inverno e nella primavera tutto il territorio può parere una prateria, e porge largo nutrimento a cavalli, pecore e vacche.

In altri tempi la quantità del bestiame era assai più notevole, che sia nel presente, che si possono computare nel

Bestiame manso, buoi per l’agricoltura 718, vacche mannalite, o manse 30, cavalli 80, majali 120, giumenti 412;
Bestiame rude, vacche 1040, tori, vitelli e vitelle 340, cavalle 300, capre 1500, porci 1200, pecore 7000.
I buoi servono anche a carreggiare, perchè generalmente chi ha buoi e carro vettureggia all’occasione.
I cavalli portano la sella e il basto con carico di cereali, di stoviglie e di bosco per venderlo in quei paesi, dove se ne abbia bisogno.
I giumenti servono per la macinazione del grano, non avendosi che un solo molino idraulico, il quale lavora quando possa avere il moto da una sufficiente corrente.

I pastori vagano per le terre incolte esposti a tutte le inclemenze atmosferiche perchè non fermandosi in nessuna parte non possono ripararsi in alcuna capanna, epperò sono fortunati sempre che possano trovare un albero frondoso che li protegga dalla pioggia o dal sole.

Mancando i pascoli per la lunga siccità gli armenti e le greggie devono diminuire. V’ha in altro caso altra causa di mortalità nelle pecore, quando il pastore non sia ben vigilante per impedir loro di dissetarsi sitibonde nelle acque limacciose de’ pantani. Quell’umor venefico cagiona in esse una tal malattia, per cui gonfiansi nella testa e nel collo e presto soccombono. È pure del veleno nelle erbe de’ pantani che si prosciugano dal sole estivo, e molte di quelle che si pascono di quella verdura periscono.

Le vacche scemano pure per la malattia del penfigo, che appellano comunemente su mali dessa figu. Questo morbo che attacca una gamba apparisce prima ne’ vitelli, e diventa contagioso, se non si rimedi tempestivamente. A tal fine rinchiudesi l’armento in un serraglio e si profumano gli animali, facendo intorno de’ fuochi con legno di fichi silvestri per tre o quattro giorni.

I formaggi sono di poca bontà e marciscono presto. Notasi nella manipolazione l’eccesso del quaglio e il difetto di compressione. Ordinariamente si vendono a’ negozianti di Cagliari.

Una parte delle pelli e cuoja si concia nel paese, ma sia per la qualità dell’acqua, sia, come è più probabile perchè non si sa l’arte, la manifattura è poco stimata.

In ogni cortile mantienesi un buon numero di pollame, galline comuni e piccioni.

L’apicultura si pratica da pochissimi e il numero degli alveari di poco sopravanza il migliajo.

Commercio. I sangavinesi vendono una considerevole parte de’ prodotti agrari e pastorali, vendon mattoni, tevoli, stoviglie, bosco, tele e coperte di letto.

Da quello che mettono nel commercio, di grano, orzo, legumi, zafferano, olivi, possono negli anni felici ritrarre per lo meno ll. 180,000, mentre da prodotti pastorali in formaggi, lane, pelli, capi vivi, possono ottenere ll. 12,000, e dall’opere figuline, dal bosco, e da altro ll. 8000: in totale ll. 200,000.

In Sangavino sono pochissimi che attendano al negozio, e con piccoli capitali. Vi sono quattro botteghe di generi coloniali, due di pizzicagnoli.

Si fa mercato nelle quattro feste principali del paese, alle quali concorrono de’ mercantuzzi da varie parti. La fiera maggiore è per la festa di s. Lucia. Ricorrono esse nella domenica prima di luglio, nel 12 agosto, nella domenica prima di settembre, nel 13 di dicembre.

Le strade, per cui comunica co’ paesi vicini, son ben carreggiabili ne’ tempi asciutti, difficilissime ne’ tempi piovosi, perchè spesso le ruote e i giumenti si affondano nel fango.

Dista Sangavino da Samassi a scirocco miglia 7; da Uras verso maestro-tramontana miglia 10; da Pabillonis a maestrale miglia 4; da Sardara verso tramontana miglia 4; da Villacidro verso ostro-libeccio miglia 6; da Guspini verso ponente miglia 7 e più; da Gonnosfanadiga verso libeccio miglia 7 per la via detta di Piscina Laderi, perchè passa presso lo sfossamento fatto per il materiale de’ mattoni crudi, che suole empirsi dall’alluvione; finalmente da Sellori verso levante miglia 5.

Ho notato le opere figuline, come un ramo produttivo, e tale è veramente.

I sangavinesi, come quei di Pabillonis, Guspini e Pau, fabbricano tegole, mattoni, quadrelle, brocche, pentole, tegami e altre grosse stoviglie, e ne fanno grande spaccio. Sarebbe un gran bene che quest’arte si perfezionasse, perchè non sarebbe necessità di importare dall’estero tante majoliche.

Religione. La parrocchia di Sangavino, compresa nella giurisdizione del vescovo d’Ales, è governata da un parroco, cui dassi il titolo di rettore, e assistono nella cura delle anime quattro o cinque sacerdoti.

Vi sono senza cura d’anime alcuni altri preti, due con ufficio di cappellania, quattro, o più altri, senza particolari obbligazioni.

La chiesa maggiore, sufficientemente capace, con nove altari tra cappelloni e cappelle, ha per titolare s. Chiara, monaca dell’ordine serafico, e fu eretta in parrocchiale da un monsignore Fra Lorenzo de Villa-Vincenzio spagnuolo, dell’ordine di s. Francesco, vescovo della diocesi d’Ales intorno all’anno 1580.

Sebbene la medesima goda di una dote, che presumesi non minore di ll. n. 50 mila di capitale, tutta-volta la sagrestia non è tanto fornita, come si potrebbe supporre.

Le decime che si percevono dal parroco sono considerevoli, massime in anni di fertilità, perchè si è potuto raccogliere ne’ magazzini starelli di grano 4000, d’orzo 1400, di fave 1600, di legumi 100, di zafferano libbre 36, di vino màrigas 450 (di litri 50); dopo i quali articoli dovrebbonsi computare le decime pastorali, in capi vivi e formaggi.

Il solo frumento calcolato a ll. 8 lo starello darebbe ll. 32,000; le altre parziali eleverebbero questo numero a più di ll. 50,000.

Che se non in tutti gli anni i seminati danno copio-si frutti (io qui ho posto che dessero dal 10 al 12, il che è frequente, e sarebbe ordinario se le stagioni non corressero talvolta meno favorevoli), se non tutti pagano la vera decima; non pertanto è ben evidente che i ministri hanno per il loro servigio una limosina larghissima, o dirò meglio un pinguissimo beneficio.

Ma dicasi il vero non è in questo solo la solita rendita del parroco, perchè si devono pure computare i frutti di stola, che in un paese di molto popolo debbono essere abbondanti, già che comprendono le limosine per messe, novene, processioni, benedizioni, esequie, ecc.

La quantità de’ legati pii della parrocchia di Sangavino è considerevole, e parlando rispettivamente alle lascite per celebrazione di messe devo pur dire esser queste in tanto numero, che, i sacerdoti del paese non bastando al numero delle medesime, bisogna mandar altrove la limosina di migliaja per satisfare a tutte le obbligazioni.

Le chiese minori sono quattro, denominate dalla s. Croce, da s. Gavino, da s. Severa, da s. Lucia. La prima è dentro il popolato ed ha un piccol cemiterio.

La seconda, come le altre due, è fuori dell’abitato, e molto antica, se come porta la tradizione già esisteva intorno al mille dell’e. v.

Secondo questa tradizione essa sarebbe di tempo inferiore alla unione co’ nurazzellesi delle piccole popolazioni, che aveano sede ne’ due luoghi, che sono detti, uno Ruinas-mannas (il che indicherebbe un abitato piuttosto grande), l’altro Ruineddas (che direbbe un abitato meno esteso); e siccome questa appellazione di Ruinas (rovine) porta una distruzione violenta, però si potrebbe congetturate che queste abitazioni fossero state rovesciate da furore ostile, come forse accadde anche alle abitazioni di Nurazzellu, che distava di sole tre miglia dalle due suindicate.

Potrebbesi ancora andar più avanti nella congettura e riferir quelle rovine a’ saraceni, che verso quell’epoca, trovandosi assaliti nell’interno da’ popoli sardi, e in su’ littorali dalle flotte di Pisa e di Genova, fecero con furore barbarico i maggiori guasti che potevano.

Forse fuggirono anche i Nurazzellesi, e quando il nemico si partì dall’isola ritornarono insieme co’ popolani dei due luoghi vicini, di cui ignoriamo il nome antico, e li accolsero in Nurazzello.

Proposte queste oscure memorie storiche proporrò quello che nelle tradizioni si trova rispettivamente alla chiesa di s. Gavino, cioè che in principio fosse la medesima ufficiata da monache; e se fosse così potrebbesi riconoscer qui il monistero de’ santi Gavino e Lussorio, del quale è menzione nelle epistole di s. Gregorio VIII (ep. 7, c. 9) e fu abbadessa Sirica, e poi Gavinia; potrebbesi pure ragionevolmente stimare che questa chiesa dopo la detta riunione de’ tre popoli fosse eretta in parrocchia, e desse il nome a’ tre popoli riuniti; che la popolazione disposta intorno alla medesima cominciasse a distendersi a ponente verso la chiesa di s. Chiara, e che nel 1550 già che si fosse tanto ritirata da Nurazzellu e approssimata a s. Chiara, da essersi dovuto trasferire il parroco per comodo de’ suoi parrocchiani dell’antica nell’attuale parrocchia per comodo del popolo.

Nell’anno 1725 il teologo Francesco Porzella, rettore parrocchiale, faceva raddoppiar nell’interno le mura della chiesa di s. Gavino, coprendola con volta; ma lasciava intatta l’opera antica del presbiterio e la facciata, in cui era una iscrizione gotica, che ora è quasi tutta cancellata per corrosione.

La terza, prossima a quella di san Gavino, perchè il suo piazzale è limitrofo al cimitero, era già come in mezzo all’abitato di Nurazzellu, come porta la tradizione, dalla quale consta parimente che sotto l’altare al lato dell’epistola sieno stati deposti due corpi santi.

La quarta, distante quattro minuti dalla popolazione, fu già uffiziata da’ monaci benedittini, e governata dopo la partenza di questi da un cappellano, al quale i paesani davano il nome di abate, e finalmente in tempo del sunnominato vescovo di Ales fra Lorenzo di Villa-Vincenzio, conceduta a’ minori osservanti nel 1580, che l’hanno abitata sino al presente.

Quando il fratismo fioriva in Sardegna erano in questo convento dieci o dodici sacerdoti con circa venti tra laici e terzini; poi cominciò a scemare il numero de’ sacerdoti, dove talvolta se ne trova un solo, tuttavolta restano ordinariamente quindici o più laici e terzini.

Uno o due sacerdoti non potendo ufficiar nella chiesa, e per essere separati dalla popolazione per un atto, che nell’inverno è difficilmente praticabile, e anche per non essere persone idonee, non potendo prestar servigio al parroco, vedesi bene che o nulla o pochissima è l’utilità che ha il paese da questo convento, e che la manutenzione del medesimo non solo è spesa gravosa, ma inutile.

Che la sua manutenzione sia gravosa nessuno il negherà, dove sappia che i dodici o quindici frati laici vanno sempre intorno anche nelle terre circostanti domandando di tutto e prendendo tutto quello che per amore di s. Francesco vogliasi dare a’ suoi figli, grano, orzo, legumi, nelle aie, erbe ortensi e frutta ne’ poderi, vino e sapa nel tempo delle vendemmie, agnelli, capretti, porchetti e pezze di formaggio da’ pastori, pane, farina per le ostie, olio, cera, nelle case.

Aggiungesi che si questua pure per le feste, e per quella di s. Lucia, che è la principale che si celebra nella loro chiesa, questuano i frati per le spese della medesima da trenta o quaranta giorni avanti la ricorrenza, nonostante che sieno certi che nelle offerte che i devoti deporranno nel piatto sotto il simulacro della santa, si avrà assai più che siasi speso, perchè si raccoglie sovente più di ll. 300.

Le feste principali di questo paese sono per s. Chiara, s. Sera, o Severa, s. Emiliano e s. Lucia.

Per s. Lucia è un concorso maggiore e per devozione e per la fiera che vi si tiene, ed è più celebre delle altre che si tengono non solo in questo paese, ed in occasione delle altre feste, ma anche in altri luoghi de’ prossimi dipartimenti.

Lo spettacolo della corsa è frequente; ma perchè i soli palii per feste di s. Emiliano e s. Sera (domenica 1.ª di luglio, e 1.ª di settembre) sono di stoffe seriche a fiorami di oro argento e seta colorata, però in queste sole gareggiano i più nobili corsieri dell’Isola, mentre nelle altre, nelle quali sono a palio pezze di per-callo, corrono cavalli ordinari.

Non giova notare le altre frequentissime feste minori, e basta dire che le processioni sono continue in tutte le domeniche dalla prima di maggio all’ultima di settembre.

Avendo descritto altrove queste processioni rurali, dirò adesso rispettivamente a queste di Sangavino (e si può intendere di altre parrocchie) che talvolta in uno stesso giorno ne coincidono varie, che si fanno una dopo l’altra, e che non è raro di veder portati sopra diverse barelle i simulacri di diversi santi.

Dovrebbe per maggior utile della religione restringersi questo numero di processioni, per le quali togliesi a’ sacerdoti il tempo a officio più importante, all’officio, che non si dovrebbe mai sospendere, di spiegare ed inculcare le massime evangeliche, di svellere dalle menti ignare i pregiudizi, gli errori, e di purificare la religione da ogni sorta di superstizione.

Credono alcuni che si supplisca co’ panegirici de’ santi, ma questi sono poco proficui al popolo, che nulla intende delle virtù del monachismo, e meno ancora di certe speculazioni teologiche, che producono sul pulpito certi frati e preti, quando non dicono stoltezze ridicole.

Sono in Sangavino varie confraternite, denominate del Rosario, dalle anime purganti nella parrocchiale, dalla Vergine delle Maraviglie nella chiesa di s. Lucia, da s. Croce nell’oratorio dello stesso nome.

Oggetti d’arte osservabili nelle chiese. Sono degne di essere riguardate alcune statue, e segnatamente nella parrocchiale sette simulacri scolpiti da Giuseppe Antonio Lonis di Senorbì, del quale abbiamo fatta altrove onorevole menzione, e li quattro dell’altro artista nazionale Fra Antonio Cano che non sono senza qualche pregio; nella chiesa di s. Gavino quella del titolare che fu lavoro di Francesco De-Nardo napoletano, e nella chiesa di s. Lucia la N. D. delle Maraviglie, che consiste in un gruppo di molte figure, rappresentanti la B. V., i quattro evangelisti, vari angeli e satanasso incatenato al collo.

Fra’ dipinti si può commendare quello dello Scaletta, già da noi menzionato altrove; è lodato come pittore di merito rispettivamente al tempo ed al luogo.

Antichità. Nel territorio di s. Gavino non vedesi presentemente alcun nuraghe, ma è certissimo che ve ne furono fabbricati non pochi, i materiali de’ quali in parte furono adoperati per costruzione, in parte sono sparsi per il territorio, essendo certamente provenute dal disfacimento dei nuraghi quelle grandi pietre vulcaniche che si trovano in ogni parte tra altre pietre di granito bianco, rosso e bruno. Se si zappasse in quei siti, dove il suolo rilevasi alquanto sul piano in figura convessa con circonferenza di 60, 80 e 100 metri, si troverebbero le fondamenta de’ nuraghi, che sono pure indicati dal nome dei siti, che sono: Nuragi-Nieddu, Nuragi Scolca, Nuragi Ortilani. Il nome di Nurazzellu, che aveva l’antichissima popolazione, di cui abbiam ragionato, significando senza dubbio un nuraghe, o piccol nuraghe, se Nurazzellu sia identico di Nurachellu, o di un nuraghe che era denominato da Agellu o Aghelu, se siasi pronunciato in principio, Nura-Agellu; comunque debba intendersi, esso indica un nuraghe, che già esistette in qualche parte del luogo, che è così nominato.

Le consimili convessità che si trovano sul piano del territorio, esse sono Bia-Umbo, Cracasa, Gibbamanna, Gibbisedda, Gibba corroga, Gibba deis Piras, Gibba Onidi, Cucuru de Planu, Pizzu Loia, Cucuru de Campu-pirastru, Cucuru dessa bia, Cucuru de Per-das-longas, Masongius ec. Tutti questi poggetti, che sorgono nel piano intorno all’abitato entro la distanza di due a quattro miglia, pare certo sieno stati formati dalle infime parti de’ nuraghi, anzi si vedono chiare in alcuni le vestigie, e ne sono un’altra prova convincente le molte pietre di smisurata grandezza che vedonsi sparse intorno a dette prominenze.

Può dunque tenersi che dentro i limiti del territorio di Sangavino sorgessero ne’ tempi più antichi più di sedici nuraghi, e che alcuni de’ medesimi fossero tanto grandi, quanto quello che vedesi ancora nelle vicinanze di Pabillonis, che è uno de’ più colossali del-l’isola, come pure sono quelli che si vedono, conservati ancora in molte parti, a ponente di detto villaggio, e detti Bruncu dess’Orcu, Fumìu, Saurecci, che abbiamo descritto nell’articolo Guspini, e meritamente lodato degnissimi di esser veduti.

Se in qualche tempo si scaverà nelle convessità, dove sono sepolte le fondamenta de’ nuraghi che abbiamo indicato nel sangavinese, forse si potran vedere altre particolarità di disegno.

Perdas-longus. Mi viene il sospetto che questo nome possa indicare uno di quegli antichi monumenti religiosi, che furon da noi descritti altrove sotto questo stesso nome, o sotto quello di Pedras fittas e che si trovano ancora in molte parti del Logudoro. Niente più probabile che anche in queste parti meridionali fossero ricevute presso alcune tribù le stesse credenze religiose.

Popolazioni antiche. Si sono già indicati due punti, Ruinas-mannas e Ruineddas, dove nel secolo X era popolazione, si potrebbero indicare altri due punti popolati, come in Cucuru, Casa, e Casa de Antiogu Steri; è però certo che essi in tanta superficie, quanta è dentro i limiti di questo paese furono abitati molti altri punti, perchè nell’antichità era la popolazione molto sparsa per la campagna. Che se di tante abitazioni non appariscono più le vestigie, non perciò si deve dubitarne, massime essendo ovvia la ragione del-l’annientamento della vestigia, in questo che la costruzione facendosi con mattoni crudi, quando questi si sciolgono, non deve più restar indizio alcuno.

L’Alèo che con diligenza notava tutti i luoghi spopolati affatto dopo fatali infortunii, quando notò le terre, che nella regione e baronia di Monreale, d’Uras e di Parte Montis, erano rimaste deserte, nomina: Nuraxeddu (probabilmente Nurazzellu), Fontanugu, Murus, Rosas, Sellas, Serru, Sa bidda de santu Gontini (Costantino regolo di Logudoro), Pabari, Funtana Azza, Tacu, Donnigala, Zey, Bidda de santa Adi, Gennarosa, Acugonnos, Muntangia, Bonorcili, Sardis, Bidda de santu Dominu, Savolla, Castellu (cioè Monreale), Genu, Fanari; quindi presso Terralba, sa bidda de s. Salvadori, s. Arcidanu, sa Bidda de s. Nicola, e Taris.

Forse tra questi nomi alcuno apparterrà a qualche punto del Sangavinese.

Nel territorio di Sangavino che era alla frontiera del regno d’Arborea col regno di Plumino, o Cagliari, accaddero molti fatti d’arme tra arboresi e pluminesi, tra arboresi ed aragonesi, e molte volte il paese ed il territorio deve esser stato devastato dagli invasori.

Nel 1838, quando i sindaci de’ popoli soggetti alla regina Leonora d’Arborea furono convocati per sottoscrivere a’ patti della pace conchiusa tra detta Regina e Giovanni re d’Aragona, vi andò rappresentante e sindaco de’ popoli di Monreale, cioè del sobborgo di Monreale (il Castello) di Sangavino, di villa d’Abbas (il paese che era dove sono le fonti termali di Sardara), di Panigionis (cioè Pabillonis) e di Guspini, un uomo principale di Sardara, che nominavasi Maragiano (Margiani) Gaduleso.

Si temette in Sangavino delle improvvise invasioni dei barbareschi, massime dopo che questi nel 1584 giunsero sino a Pabillonis e lo saccheggiarono, portandone via le migliori cose con quei miseri, che non si eran potuti salvare con la fuga od in Sangavino od in Sardara; ma non pare che gl’infedeli si sieno tanto inoltrati altre volte, nè se ne ha nelle memorie di quei tempi alcun cenno.

Contenuto tratto dal sito dell’Unione Sarda – Dizionario Angius-Casalis

Exit mobile version