San Gavino Monreale – dal Dizionario Angius-Casalis

Sul finire degli anni 20 di due secoli fa l’abate torinese Goffredo Casalis decise di pubblicare il Dizionario geografico storico statistico commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna. E nel quadro dell’importante e complessa iniziativa fece una scelta certamente indovinata: dare l’incarico di raccogliere tutte le informazioni sulla Sardegna a padre Vittorio Angius, cagliaritano, scolopio, insegnante, uomo politico, scrittore, giornalista, studioso infaticabile e ricercatore scrupoloso.

Vittorio Angius, per assolvere al meglio il qualificato e qualificante incarico, iniziò un viaggio che doveva durare oltre nove anni e durante il quale visitò la Sardegna paese per paese studiando con rigore e pazienza gli usi, i costumi e la lingua parlata in ciascun centro, facendo incetta di informazioni e dati sulla popolazione, sulle attività economiche e prendendo appunti precisi, infine, sulle caratteristiche delle abitazioni private e dei pubblici edifici.

SAN GAVINO di Monreale [San Gavino Monreale], grosso comune della Sardegna, capoluogo di mand. della Pref. di Cagliari, già compreso nell’antico dipartimento di Colostrai del regno di Arborea, quindi, dopo l’abolizione di quel famoso Giudicato (quando il Governo d’Aragona ne distribuì per vendite o donazioni le terre a’ suoi baroni), nella Baronìa di Monreale, nome sostituito all’antica appellazione di Colostrai, e che erasi appropriato al castello (su Castellu), dopo che nel 1324, l’Infante don Alfonso, temendo per la sposa nei pericoli della guerra, che combatteva contro i Pisani d’Iglesias e di Cagliari, la mandò in quella fortezza del Giudice di Arborea per esservi sicura da’ nemici e da’ loro partigiani, e per non patire della malaria (l’intemperie).

La popolazione, che appellasi da s. Gavino, e siede nel sito ove ora si trova, non ebbe in principio questo nome, ma quello di Nurazzeddu, o Nuragellu.

Nurazzeddu essendo rimasto deserto o rovinato, più probabilmente in alcuna delle molte guerre, combattute tra i Giudici di Cagliari o Plumino ed i re d’Arborea, o tra questi ed i re d’Aragona, che in tempo di pestilenza; ed essendosi poscia ristaurate le abitazioni, non più nell’antico sito, ma intorno alla chiesa di s. Gavino, però fu il novello popolo denominato da quel santo martire.

Se si può proporre come probabilissimo questo avvenimento, non se ne potrà mai indicare l’epoca precisa, se pure non venga alla luce qualche documento.
Sono tre vie principali (rugas) e la prima divide il popolato quasi in due parti eguali, denominata una parte dalla parrocchia, l’altra detta cammino di Cagliari, perchè si esce da quella per andare alla capitale.

Anche le case più notevoli sono d’un solo piano, fabbricate tutte di mattoni crudi con solai per mettere i grani ed i legumi.
La posizione geografica di s. Gavino resta determinata nella latitudine 39°, 32′ 50″, e nella longitudine occidentale del meridiano di Cagliari 0°, 19′ 30″.
La sua situazione è nella parte superiore del piano, che dal bacino di Sabàzu, che dicevasi stagno di Sellòri, discende alle maremme Nabolitane, o di Terralba.
Coperto quest’abitato almeno in parte agli aquiloni per la notevole mole di Monreale, resta esposto agli altri venti, principalmente al maestrale, che vi soffia senza alcuna opposizione dal golfo di Oristano.

Le montagne di Guspini distanti miglia 8, e le colline di Sardara e Sellori distanti miglia 5, tolgono alquanto di forza al ponente ed al levante; ma alla parte di mezzodì, perchè l’elevazione del suolo è pochissima, perciò nell’abitato si deve patire anche dell’influenza degli australi.
Se tacciono gli aquilonari e maestrali, il caldo è molestissimo nell’estate, il freddo mitissimo nell’inverno.
Per questa temperatura invernale, la neve, che pure non cadevi tutti gli anni, si scioglie prestamente, in meno di 24 ore.

È di rado che la elettricità produca la meteora della grandine, ed è più raro che le vigne e le frutta patiscano dalla medesima.
È questo uno de’ paesi dove più sentasi l’umidità, la quale è insoffribile ne’ tempi piovosi.
Il suolo del paese, mancando di declività, anzi essendo alquanto concavo, ritiene, come in un bacino, le alluvioni che si versano in esso dalla parte di mezzodì e da quella di levante; le vie restano inondate, e vedesi un immenso pantano, tra il quale sorgono le case.

Questo pantano non può in certi punti guazzarsi a cavallo senza pericolo di sprofondare e perire, come miseramente accade ad alcuni incauti. Un viaggiatore che vi passi la prima volta, rischia, se non sia guidato da una persona pratica, ed il rischio è maggiore nell’entrata e nell’uscita dal paese, sulla via da Cagliari ad Oristano, ed in quella a Sellori.
Nell’anno 1846, per un copioso acquazzone, che ruppe dalle nubi del libeccio, il paese restò inondato, ed il lago levossi in certi punti a due metri: onde avvenne ne’ vicinati (rioni) di s. Croce e di Nurazzeddu, che le case fabbricate di làderi (mattoni crudi), nello scioglimento di questi rovinassero, e si patisse un danno considerevolissimo (relativamente al paese) perchè fu stimato non minore di lire nuove 50 mila. Fortunatamente non perivano che due sole persone.

L’acqua, che impaluda in questo luogo, non è solamente quella che scorre in alluvione dalle terre superiori, ma quella pure che filtra dalle medesime, e sorge in fonte in diversi luoghi, e precisamente in quelli dove il suolo perde la sua solidità, e cede sotto i piedi con pericolo delle persone e degli animali che incautamente vi passano.
A questo pericolo hanno i Sangavinesi pensato più volte di provvedere sternendo delle pietre sopra quei tratti pericolosi, ma senza buon effetto, perchè quando le acque filtrate tornarono a sorgere con impeto, trassero seco la terra, e le pietre si affondarono dove più, dove meno.

Essendosi veduta la inutilità del selciamento si formarono ponti sopra quegli acquitrini, due dentro il paese, ne’ luoghi di più frequente passaggio, ed uno fuori presso al convento, che da questa circostanza fu denominato su ponti de conventu.

Non par credibile che ne’ tempi scorsi nessuno in quel paese abbia potuto indovinare il modo vero di asciugare in parte quel suolo, aprendo con facilità degli scoli verso il fiume, e sfossando un canale profondo sufficientemente alla estremità del paese dalla parte di levante e di mezzodì, con pendenza dove è più facile darla, per condurre l’umore della filtrazione e le alluvioni all’alveo dell’indicato rivolo.

Farebbesi pure ottima cosa per la salubrità dell’aria se si togliesse il fango dall’alveo di questo.
In un sito cotanto acquitrinoso dentro il paese e fuori tutto all’intorno, dovea necessariamente essere frequentissima la nebbia. Come scende il sole dietro i monti del Colostrai, i vapori raffreddandosi cadono dall’alto e fattisi sensibili, ingombrano il paese, bianchi e cerulei, come il fumo che espira per mezzo di tevoli da’ focolari.
Lo stesso ingombramento vedesi nella mattina, ma più denso assai, nè si dirada prima che il sole abbia raddoppiato il suo calore.
Sono rare le mattine che l’aria abbia quella trasparenza, che ha in luoghi migliori, non è raro che il sole già ben alto sopra l’orizzonte resti nascoso come da nuvolo, o appena trasparisca fosco rossigno o sanguigno. Tanto è crasso il fluido, onde è saturo l’ambiente.

Essendo tanto umorosa la terra, frequenti le paludi e i pantani intorno al paese; però quando ne’ forti calori della estate si corrompono le sostanze organiche, vegetabili e animali, accade uno sviluppo di aliti venefici, che respirandosi disturba e guasta l’economia animale, e cagiona ad alcuni la morte. In paragone l’aria di Oristano è men morbosa, che sia questa di Sangavino; e questo luogo se meno fosse ventilato e purgato da’ miasmi sarebbe affatto inospitale, essendo un luogo de’ più insalubri, perchè mentre in altre terre di ciel malsano la malaria non nuoce, che nelle stagioni estiva ed autunnale, qui è perniciosa anche nell’inverno; e mentre in altre regioni maligne gli indigeni, attemperatisi a quelle pestifere esalazioni, non patiscono più dalla loro nociva efficacia, come accade in chi si assuefà a’ veleni, e vegetano prosperi con vigorosa sanità, anzi alcuni giungono con integrità di sensi e robustezza di fibre sino agli anni più tardi; in questa per lo contrario patiscono molto anche i nativi e vivono comunemente deboli e addolorati, come appare in molti dal tristo colore del volto e dalla ordinaria rilassatezza de’ nervi; pochissimi giungono all’anno ottantesimo e più pochi in quella grave età hanno della forza, languendo quasi in tutte le fibre, i sensi e gli spiriti, se l’agiatezza della vita non vieta quella deteriorazione.