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giovedì, 18 Aprile 2024

I maiali sardi bastano, si importa per risparmiare

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Alessandro Mamusa del Consorzio filiera del suino sardo non ha dubbi: la produzione isolana basta per i salumifici, chi importa lo fa solo per risparmiare

Il tir carico di carne fermato a Olbia durante il blitz dell’MpsSASSARI.
Il tir carico di carne fermato a Olbia durante il blitz dell’MpsSASSARI.
Nessun complotto contro i Murru, nessun tentativo di escludere «un’azienda rispettabile come quella di Irgoli» dal Consorzio filiera del suino sardo e solidarietà ai pastori che stanno accendendo i riflettori sul problema «delle carni importate e spacciate per sarde». Poi c’è un però, come in ogni polemica che si rispetti.
Anzi due: Alessandro Mamusa, allevatore e presidente del Consorzio, prima precisa di non avere preso parte «ad alcun blitz dei pastori, né al porto di Olbia né a Porto Torres», poi dice che su un aspetto della questione, che è poi quello cruciale, lui e Antioco Murru stanno agli antipodi. Se il patron del salumificio di Irgoli dice che lui, come altri, è obbligato a importare la carne di suino perchè la produzione locale è insufficiente, Mamusa afferma il contrario: «In Sardegna ci sono 9204 allevamenti, assolutamente in grado di soddisfare non solo le richieste dei 32 salumifici isolani, ma addirittura di coprire il fabbisogno di tutti i consumatori».

Dove sta l’inghippo? «Il problema – dice Mamusa – è che la carne sarda non viene acquistata, dunque gli allevatori limitano la produzione». È il prezzo che fa la differenza: mediamente, un capo sardo costa il 20 per cento in più rispetto a quello estero, il suinetto da latte isolano vale 6 euro al chilo, il «cugino» straniero circa 3,50 euro. Gli unici periodi in cui gli allevatori non devono abbassare il prezzo, è sotto Natale e a Ferragosto: «In tutto il resto dell’anno, i distributori comprano la carne sarda soltanto se venduta allo stesso prezzo di quella che arriva dalla Penisola o dall’estero».
Così fanno anche i salumifici, «che lavorano prevalentemente carne non isolana». È il caso dell’azienda di Irgoli, che fa parte del Consorzio Filiera del suino sardo, nato l’aprile scorso «per volontà della Regione, assessorato all’Agricoltura, per aiutare la suinicoltura a sopravvivere». Al momento, alla Filiera hanno aderito, oltre al salumificio Murru e all’azienda agricola Mamusa (San Gavino Monreale), la Genuina di Ploaghe, Gennargentu di Fonni e Salumi italiani di Iglesias, «ma abbiamo già altre 20 richieste, soprattutte dal Nuorese». Una regola su tutte: il 20 per cento della carne acquistata deve essere sarda.
Su questo aspetto, Antonio Murru è categorico: dice che è impossibile, proprio perchè la produzione scarseggia. Mamusa afferma il contrario e precisa che «la Filiera è disposta a venire incontro a Murru, quel che conta è che elabori un programma, che dica di quanta carne ha bisogno. Ma su un punto non si torna indietro: il Consorzio è nato per valorizzare e sostenere le carni sarde, chi non si adegua non può prendere parte al progetto».

Proprio sul Consorzio, qualche giorno fa, l’assessore Prato si è beccato una pioggia di critiche in commissione Agricoltura. Alcuni esponenti della maggioranza di centrodestra hanno parlato di gestione poco chiara e chiesto a Prato di ritirare il patrocinio della Regione. Non è stato necessario, ci ha pensato Mamusa.
Che, «visto l’atteggiamento di certi politici», ha deciso di rinunciare al sostegno. Una provocazione, ovviamente. Perchè niente Regione vuol dire niente camera di compensazione, cioè niente fondi da cui attingere, almeno nella fase iniziale, per garantire pagamenti veloci. E senza questo serbatoio sopravvivere sarebbe veramente dura.

Fonte: Silvia Sanna, la Nuova Sardegna

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